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20 Maggio 2024Lo scultore ceramista veliterno Maurizio Orsolini è uno degli artisti più attivi e apprezzati del nostro territorio. Formatosi alla Scuola d’Arte “Juana Romani” di Velletri, ha insegnato nella scuola Educazione Visiva e Plastica, fino al pensionamento nel 2010. Il suo studio d’arte, sito in via Padella 27, custodisce cinquant’anni di attività artistica, con le sue opere e disegni, ispirati alle forme femminili, alla mitologia e alla letteratura.
Orsolini ha esposto sia a livello locale e in territorio italiano sia all’estero, come nel caso della Mostra a Porta Napoletana, nel 2012, e quella a Parigi, nel 2016. Recentemente, ha ricevuto un importante riconoscimento a Spoleto, in occasione del Premio Internazionale Comunicare l’Europa 2024, per “Meriti professionali, lavorativi e per il notevole impegno civile e culturale”. Lo abbiamo intervistato.
Maurizio Orsolini, può parlarci di come è nata la sua esperienza con l’arte? «Io ho conosciuto l’argilla nel periodo in cui frequentavo la scuola, a fine anni Cinquanta. Me ne sono innamorato subito. Era una materia facile da maneggiare, morbida; mi seguiva in base a ciò che volevo realizzare, secondo le sue “leggi”. Da allora, non ho più smesso. Finita la scuola, ci sono tornato subito come insegnante, per cui non c’è stato mai un periodo d’interruzione con questa attività. Dopo la pensione, mi ci sono dedicato tutti i giorni; questo studio è il mio regno di ceramica».
Parliamo delle sue opere, dei soggetti rappresentati, qual è il suo concetto d’Arte, cosa vuole comunicare?
«Sente che confusione c’è qui dentro (nello studio ndr)? Ecco, io sono questo, tradurlo in parole è difficile. Io non sono molto eloquente, parlo con le mani. Ci sono le opere che parlano per me. I miei lavori seguono sempre la via verticale, si sviluppano verso l’alto, in stile un po’ gotico. C’è molta leggerezza, flessuosità; le immagini sono soprattutto femminili, essenzialmente antropomorfe, dalle forme “muscolari”. Parto dal vero, ma poi estraggo quello che mi serve. Se quello che realizzo è vero o no, non mi interessa; lascio che venga fuori in quel momento quello che voglio fare, in quel contesto».
Invece, per quanto riguarda questa nuova produzione, a forma di fiamma?
«Io non mi fossilizzo sulla stessa cosa. Questi nuovi lavori, ovoidali, che stanno uscendo fuori spontaneamente. Questa punta che tende sempre in su, come nelle altre opere, come per toccare Qualcuno che è in alto. Possono rappresentare dei contenitori in cui buttare dentro tutte le cose brutte che accadono, le cattiverie dell’essere umano, che vengono poi elaborate e trasformate, per poi liberare qualcosa di buono. Questi tagli che ci sono sopra, li faccio io con le mani, senza utilizzare strumenti. Amo modellare l’argilla direttamente, utilizzando la tecnica dei colombini, sviluppati intorno a un listello, fino alla chiusura in alto. Poi modello ancora, taglio, non come Lucio Fontana, che ricorre a tagli di tipo concettuale. Io entro nell’opera, mi ci mi muovo; qui apro, lì chiudo. Nel caso di lavorazioni più elaborate, realizzo un pezzetto alla volta, che poi assemblo. Dopo aver ultimato, lascio asciugare e cuocio nel forno a 930 gradi, normalmente due volte, in modo che si fissi il colore, ma posso fare una terza cottura se voglio ottenere un effetto madreperlato, a oltre 700 gradi».
Ha in mente di esporre queste nuove forme d’arte in una mostra? «No, almeno per il momento. Servono ame, le faccio per me. Ma se qualcuno le vuole vedere, io sono qui, in questo mio regno di ceramica».
Serena Squanquerillo